Sulla Via

 

La via in quanto cosa
È vaga e fioca.
Fioca! Vaga!
In essa c’è un modello.
Vaga! Fioca!
Dal presente al passato
Il suo nome non si allontana

Ci sono, seduti tra voi, studiosi delle culture dell’Asia Orientale, e mi perdoneranno per la semplificazione, ma chiunque conosca un po’ il Giappone sa che il nome di molte arti giapponesi contiene il suffisso Dō 道, da aikidō 合氣道 a… taidō 躰道 passando per kendō 剣道 e iaidō 居合道 e oltre (diversi sono i suffissi usati nella parola calligrafia, 書道 in giapponese, 書法, 書藝 in cinese e coreano, ma questo è un tema che non può essere affrontato oggi) e comunque questa questione dei suffissi non meriterebbe che ci soffermassimo troppo, se non fosse che… che in questi anni di studio mi sono chiesta spesso che cosa intendiamo noi per Via, quando parliamo dell’apprendimento, della pratica di un’arte che, come tutte le arti, richiede dedizione e perseveranza e anche resilienza, perché si tratta di un percorso che non risparmia ostacoli.
Ho osservato il maestro, che come il saggio non accumula, ma tutto usa per prendersi cura degli altri, ho osservato i suoi allievi, me stessa, i calligrafi che ho incontrato nel mondo, in cerca di una risposta, e la prima risposta che è emersa dalla mia osservazione è stata: il paradosso. Il paradosso è un elemento caratteristico del pensiero taoista, e come potrebbero confermarvi i calligrafi presenti stasera – che magari non sono studiosi del pensiero classico cinese, ma certamente sono abituati a tenere gli occhi bassi sul foglio per ore e ore e inspirare l’essenza penetrante dell’inchiostro di China 墨 facendo il primo passo sulla via della calligrafia, è proprio con il paradosso che per prima cosa ci troviamo a misurarci.

Qualcuno si ferma subito, lo trova un ostacolo insormontabile, questa strada non fa per lei, per lui. Altri proseguono, a testa bassa, a testa alta, e difficilmente abbandonano una volta imparato ad abitare il paradosso, a trovarsi a proprio agio nella contraddizione, spaesati, ma felici di lasciar cadere la pretesa-dovere della realizzazione. Insomma la pratica calligrafica, come la intendiamo noi, non vuole produrre «lavoretti per il tempo libero» e non incoraggia a sentirsi artisti della domenica. Anche se è di domenica, una volta al mese, che ci incontriamo, a Lugano, come a Milano.

Agisce, dice il Dao de Jing 道德經, il Libro della Via e della Virtù, ma non conta sui risultati.
Quando l’opera è compiuta non vi si sofferma,
Proprio perché non vi si sofferma
L’opera non va perduta.

Nel Sutra del cuore 般若心経, tanto caro ai calligrafi, che lo scrivono, lo riscrivono, e quando ne hanno ottenuta una copia perfetta, infine lo bruciano al tempio 寺  in una cerimonia rituale – non si insegna e non si pratica l’attaccamento al manufatto.

La forma è il vuoto e il vuoto è forma; il vuoto non differisce dalla forma (色不異空空不異色 shiki fu-i kū, kū fu-i shiki). Quante volte salmodiamo o ascoltiamo o leggiamo o scriviamo la parola vuoto nei sutra? Quante volte, nell’osservare l’architettura di un carattere, nello scriverlo, ci misuriamo con il vuoto, con l’importanza dello spazio bianco?

Per contribuire a questa mostra ho scelto alcuni versi dal cap 11 del Libro della Via e della Virtù.

Benché trenta raggi convergano al mozzo,
è il vuoto mediano che fa camminare il carro.
三十輻共一轂當其無有車之用
Sānshí fú gòng yī gŭ dāng qí wú yŏu chē zhī  yòng

Per modellare un vaso si usa l’argilla,
ma è dal suo vuoto interno che dipende l’uso.
埏埴以爲器當其無有器之用
Shān zhí yĭweì qì dāng qí wú yŏu qì zhī  yòng

Conoscono bene, gli studiosi di calligrafia, il paradosso del Non far nulla:
non azione 為 (Wúwéi / mu-i 为 ), quanti fra i presenti hanno provato a scrivere, nero su bianco, questi due caratteri elusivi, uno che indica azione ordinaria e deliberata dell’uomo che persegue uno scopo, nel senso di opposta ai processi spontanei della natura, e l’altro che nega, significa «non», «no».

Non appena ci sforziamo di concepire la Via, noi concepiamo l’Uno, e non appena concepiamo l’Uno, concepiamo, passando per il due e il tre, la miriade delle cose, il molteplice. Ma continuiamo a cercare l’Uno, dietro il molteplice, e il costante, dietro il mutevole, senza tuttavia concepirlo mai come Essere o realtà dietro al velo dell’apparenza.
In un certo senso la definizione meno inadeguata della Via ci porterebbe a identificarla con il Nulla, benché essa sia precedente alla suddivisione in Qualcosa e Nulla.
E quindi, per me che oggi qui, vi parlo da vecchia studentessa di calligrafia, la domanda cruciale rimane non tanto cos’è la Via, perché nel nostro caso potremmo con semplicità dire che è carta, inchiostro, un vecchio pennello diventato parte di noi, qualche antico maestro da copiare annullando nella ricerca meditativa del suo gesto la distanza spazio-temporale che ci ha già divisi per sempre, oppure che è assecondare l’estro, per i più liberi tra noi, e abbandonarsi a tracciare segni evocativi, o ancora più semplicemente che è scrivere il movimento, senza alcuna cura né pensiero per il significato, assorti a cogliere solamente il senso, su un piano puramente sensoriale. La domanda cruciale rimane, per me: Dov’è, la Via?
Nell’andare, forse?

Il carattere DAO-DŌ 道 è un carattere cinese che graficamente possiamo descrivere come composto dall’unione di due caratteri che significano uno «andare», e l’altro «testa».
Si tratta di un carattere antico, e lo vediamo per la prima volta sui vasi rituali di bronzo all’alba della terza dinastia, diciamo più o meno all’epoca in cui qui da noi veniva fondata Roma.
Nei testi filosofici taoisti, e precedenti, viene utilizzato nel significato di via, strada, metodo, principio.

In chi sia ansioso o triste, compiaciuto o irato,
La Via non avrà luogo in cui stabilirsi.
Amore e desiderio, placali.
Follie e disordini, correggili.

Ma: Via non è altro che l’universo che fluisce dalla fonte suprema, e non semplicemente il corso del suo fluire. È tronco e radice; da prima che vi fossero un cielo e una terra, innata fin dall’antichità, essa è ciò che era.

E se vogliamo veramente restare sulla Via, provare a fluire come l’inchiostro, dobbiamo smontare anche le distinzioni più basilari: qualcosa–nulla, veglia–sonno, persino la più ostinata fra le dicotomie, ovvero Cielo–Uomo 天 / 人. Per noi calligrafi anche: bello–brutto… A volte la vita – la via – è difficile, sembra infernale…

L’inferno 地獄 dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.
Avete riconosciuto tutti le parole che Calvino fa dire da Polo a Kublai Kan.
Praticare la calligrafia – e con pratica non mi riferisco solo alla scrittura, al momento del piacere fra carta, inchiostro e pennello, ma anche al tempo dedicato a progettare e organizzare, alla scuola – per me praticare significa riconoscere chi e cosa non è inferno.

A volte è come un giro in giostra a cavallo di un grifone. Non si va da nessuna parte, oppure girando e girando si oltrepassa la cortina che separa questa realtà da un altro piano di esistenza, perché anche la nostra Via della pratica calligrafica costantemente non fa nulla e malgrado ciò non c’è nulla che non faccia.
Corriamo avanti, vinciamo i nostri limiti, l’illusione 幻影 ci sostiene, precipitiamo di nuovo nell’indistinto buio di chi sa di non sapere. Siamo stanchi, il corpo vuole riposare, posare i pennelli, lavare la pietra, arrotolare il foglio. Buttare via tutta la carta che abbiamo sprecato.
Ci diamo una meta, più avanziamo nel percorso più ne cogliamo i frattali strutturali, caleidoscopici da far girare la testa, da far disperare a volte, ma allo stesso tempo più avanziamo e più a fondo capiamo che il vuoto è forma.
E più la forma si avvicina alla semplicità, più è lapidaria, e cammin facendo, di conseguenza, più difficile da affrontare: è lì dunque che siamo, è lì che è la Via per noi, nel cercare di scrivere caratteri che abbiano ossatura solida e morbidezza, senza permettere mai che i tratti diventino molli, sta nel procedere senza credere, senza vanamente sperare, rifiutando però anche l’illusione della mancanza di illusioni, tesi all’apprendimento di una competenza tecnica che è di grande importanza – e che facciamo nostra con calcolo e consapevolezza – ma disponibili a lasciare che la mente si connetta con la mutevolezza, in uno stato di continua suprema fluidità; cito da L’impenetrabile finezza della saggezza immutabile: “è la mente a essere la mente che confonde la mente. Non lasciare la mente, o mente, in mano alla mente.”
心こそ 心迷わす 心なれ 心に心 心ゆるすな
Kokoro koso kokoro mayowasu kokoro nare kokoro ni kokoro kokoro yurusuna.

Siamo dentro il punto in cui i contrari si incontrano, dimentichi che paradosso e satori 悟り hanno più di un tratto in comune, pienamente responsabili delle nostre scelte e a volte consapevoli a volte no della comunicazione da cuore a cuore 以心伝心, come si dice traducendo dal giapponese, che avviene da maestro e allievo, sommamente ambiziosi nell’imitare e superare, e insieme modesti nella quotidianità dello studio.

Parafrasando il Libro della Via e della Virtù concluderei così:

Non so dov’è, non so cos’è la calligrafia; designala con Via.
Dalle per forza un nome: “Grande”.
Grande equivale a “Procedere continuamente”;
Procedere continuamente equivale a “Lontano”,
Lontano equivale a “Fare ritorno”

(Sulla mia Via)

Testo dell’introduzione pronunciata da Katia Bagnoli Riva il  26 aprile 2018 all’apertura della mostra Le mille vie della calligrafia tenuta al Mudec di Milano.

Profilo:
https://www.shodo.it/katia-bagnoli/